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Secondo la recente pronuncia della S.C. (Sent. 1379/2019), un lavoratore che muova critiche all’operato del proprio datore, rischia di commettere un illecito sanzionabile disciplinarmente nel caso in cui le osservazioni mosse violino i principi di verità, di continenza e di pertinenza.

Gli Ermellini, nel ribadire in via preliminare il riconoscimento della nostra Carta Costituzionale del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, evidenziano tuttavia come lo stesso debba essere mitigato con quelli che sono i doveri di fedeltà e collaborazione propri del rapporto (fiduciario) di lavoro.

Più precisamente, il decoro, la reputazione e l’onore del datore di lavoro, devono comunque essere sempre rispettati, ponendosi come limite invalicabile al diritto di espressione. 

Ogni volta che i limiti sopra spiegati vengono oltrepassati, il lavoratore commette un illecito sanzionabile disciplinarmente.

E’ importante dunque che ogni valutazione del lavoratore verso l’operato del proprio datore rientri nei limiti di quella che è una continenza sostanziale (le circostanze oggetto di critica devono essere vere) oltre che formale (il linguaggio, i termini e le espressioni devono comunque sempre essere orientate al rispetto della dignità della persona).

Non solo! Le rimostranze devono comunque attenere ad un interesse vivo e reale, in sostanza concreto, in capo al lavoratore.

Ogni comportamento del lavoratore che non rispetti i limiti sopra esposti, pone lo stesso dipendente a rischio licenziamento, determinando una lesione irreparabile del vincolo fiduciario, posto ala base di ogni rapporto di lavoro.

Il caso: alcuni lavoratori, dipendenti di un’agenzia di somministrazione, ricorrevano al Giudice del Lavoro per impugnare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo che era stato loro comminato vista “l'impossibilità di reperire alcuna missione lavorativa compatibile con il livello professionale” presso le società c.d. utilizzatrici.

La domanda giudiziale si fondava sull’argomento – poi accertato in corso di causa – secondo cui successivamente al comminato recesso datoriale, la stessa società datrice avrebbe assunto nuovo personale avente profili professionali simili e posizioni compatibili con i lavoratori licenziati.

La Corte di Cassazione, con  sentenza n. 181 del 08.01.2019, confermando la pronuncia di appello, afferma il principio secondo cui,  in tema di recesso per giustificato motivo oggettivo, la successiva assunzione di soggetti – pur con profili professionali simili a quelli dei lavoratori licenziati – dà diritto a questi ultimi alla sola applicazione della tutela indennitaria, ferma restando la definitiva risoluzione del rapporto di lavoro.

Secondo gli Ermellini, quindi, il mancato rispetto dell’obbligo di repechage non è sufficiente a provare la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento  previsto dall'art. 18, comma 7, dello Statuto dei Lavoratori, come novellato dalla Legge 92/2012, escludendo così la possibilità per il lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere la reintegra nel posto di lavoro.

Sulla base di tali argomentazioni, la Suprema Corte,  atteso che nel caso in commento si ravvisava esclusivamente una violazione dell’obbligo di repechage ma non anche l’insussistenza della ragione organizzativa posta alla base del recesso datoriale, ha confermato la sentenza di appello che aveva riconosciuto ai lavoratori la sola indennità risarcitoria pari a 24 mensilità (nella misura massima di legge).

Il caso: un lavoratore ricorreva al Tribunale di primo grado per impugnare il licenziamento che gli era stato irrogato dal datore oralmente. Tuttavia, anche il Giudice di secondo grado respingeva la domanda, ritenendo che il lavoratore fosse incorso nel termine di decadenza previsto dalla legge per l’impugnativa stragiudiziale del recesso datoriale, avendo notificato il primo atto alla società ben oltre i 60 giorni dalla comminazione del licenziamento.

Si segnala come la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 523 del 11.01.2019, affermi il principio secondo cui, nelle ipotesi di licenziamento comminato in via orale, proprio perché manca la forma scritta richiesta dalla legge, l’azione per far valere l’inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata al rispetto del detto termine di decadenza di 60 giorni.

In altri termini, l'atto del licenziamento costituisce un negozio giuridico unilaterale recettizio, vincolato al requisito della forma scritta, che deve contenere la volontà chiara e definitiva del datore di recedere dal rapporto lavorativo.

Quando, diversamente, il licenziamento viene comminato oralmente dalla società datrice, lo stesso è inefficace – ossia  non produce alcun effetto – e, per questo motivo, il termine di 60 giorni previsto a pena di decadenza dall'art. 6 della l. 604/1966 non trova applicazione per l'impugnazione del licenziamento verbale.

In tale caso, essendo il licenziamento inefficace, secondo la recente pronuncia della Cassazione in commento, l'unico termine da rispettare, qualora il lavoratore intenda agire e impugnare il recesso datoriale, è quello prescrizionale ordinario (5 anni).

Sulla base di tali argomentazioni, la Suprema Corte ha quindi accolto il ricorso del lavoratore, dichiarando la non avvenuta decadenza dalla possibilità di impugnare il recesso comminatogli.

Il caso: una dipendente di Poste Italiane S.p.A., avendo aderito ad uno sciopero e pertanto non avendo potuto rispettare gli ordinari tempi di consegna della corrispondenza rimasta inevasa, si vedeva comminata la sanzione disciplinare di sei giorni di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

L’organizzazione sindacale che aveva indetto lo sciopero proponeva ricorso e il Tribunale del Lavoro adito dichiarava l'antisindacalità della condotta aziendale ed ordinava la rimozione degli effetti della stessa. Anche il Giudice dell’opposizione e, poi dell’appello, confermavano la pronuncia di antisindacalità della condotta datoriale.

Da ultima, altresì, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 1392/2018, ha confermato, in sede di legittimità, quanto stabilito dai Giudici di merito affermando come l’antisindacalità della sanzione comminata si ravvisa proprio perché, così facendo, l’azienda ha scaricato sulla lavoratrice le conseguenze organizzative e produttive legate all’astensione dal lavoro per adesione allo sciopero.

In altri termini, gli Ermellini hanno evidenziato come un simile comportamento costituisce una evidente ed indebita compressione del diritto allo sciopero costituzionalmente garantito dall’art. 40 della Costituzione, nonché, integra una pericolosa condotta potenzialmente idonea a fungere da deterrente per l’adesione ad eventuali futuri scioperi, andando a produrre effetti anche ben oltre il singolo episodio legato alla dipendente sanzionata.

Con tali argomentazioni viene salvaguardato il diritto allo sciopero del lavoratore.

Il caso: un lavoratore si vedeva contestato dalla propria azienda un illecito disciplinare commesso oltre due anni prima e, di conseguenza, veniva licenziato.

Il Tribunale adito dal dipendente accertava l’illegittimità del recesso datoriale perché comminato a distanza di due anni dai fatti contestati, ma, tuttavia, riconosceva al lavoratore esclusivamente una indennità risarcitoria, negando la reintegra.

Il Giudice dell’appello, invece, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermava l’illegittimità del licenziamento comminato e, per l’effetto, condannava la società datrice a reintegrare sul posto di lavoro il dipendente, non ritenendo legittimo il lungo decorso del tempo e statuendo come l’immediatezza della contestazione sia elemento costitutivo ed essenziale del licenziamento stesso,

La controversia approdava in Cassazione e veniva rimessa al vaglio delle Sezioni Unite, chiamate a risolvere il contrasto giurisprudenziale relativo al sistema sanzionatorio da applicare (reintegrazione o tutela indennitaria) a fronte di un licenziamento illegittimo per tardività della contestazione disciplinare.

Il chiarimento (che lascia molte perplessità tra gli operatori del diritto)  fornito dalle Sezioni Unite con sentenza n. 30985/2017 è il seguente : il licenziamento disciplinare che viene dichiarato illegittimo per tardività della contestazione deve essere sanzionato esclusivamente con il riconoscimento in favore del dipendente di un’indennità risarcitoria compresa tra le 12 e 24 mensilità della retribuzione globale di fatto; non spetta, invece, la reintegrazione sul posto di lavoro.

Parafrasando, poiché la contestazione è fondata, a nulla rileva il tempo che passa dalla commissione del fatto alla sua contestazione (nel caso in esame, ben due anni!!).

I Giudici di Piazza Cavour argomentano come l’art. 18 L. 300/70 non includa la tardività della contestazione disciplinare tra i vizi che comportano la reintegra sul posto di lavoro e sentenziano che essendo il fatto contestato tardivamente comunque commesso, non può considerarsi materialmente insussistente sicché andrà applicata la tutela  indennitaria piena, con il riconoscimento di un risarcimento compreso tra le 12 e le 24 mensilità, e non già la reintegra.

Non possiamo non segnalare il disappunto dello scrivente Studio Legale per la statuizione in commento, che lascia basiti principalmente poiché nega di fatto ogni possibilità di adeguata difesa al lavoratore, anche violando i precetti della Carta Costituzionale, e soprattutto poiché elide ogni nesso causale tra il provvedimento espulsivo e la condotta del lavoratore, rischiando di creare un pericolo precedente a danno di tutti i lavoratori.

Sul tema dei rapporti di lavoro alle dipendenze di società cooperative e sulle conseguenze in caso di licenziamento illegittimo è recentemente intervenuta la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite con sentenza n. 27426/2017, risolvendo un annoso contrasto interpretativo relativamente al  rapporto intercorrente tra la delibera di esclusione del socio lavoratore di cooperativa e il licenziamento dello stesso.

Più precisamente, i Giudici di Piazza Cavour hanno enunciato il principio di diritto secondo cui il socio lavoratore di una cooperativa che viene escluso dal rapporto associativo e licenziato per i medesimi fatti, al fine di ottenere la tutela massima della reintegrazione sul posto di lavoro, deve impugnare altresì la delibera di esclusione, e non già il solo licenziamento.

Diversamente, la sola impugnativa di licenziamento (e, quindi,  la mancata impugnazione della delibera di esclusione a monte del licenziamento) consente la possibilità di chiedere meramente una  tutela risarcitoria (il cui importo può variare tra 2,5 e 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto) a fronte di un licenziamento che risulti essere illegittimo.

La soluzione offerta dalle Sezioni Unite muove i passi da una ricostruzione generale del rapporto che lega il socio lavoratore alla cooperativa secondo cui  si prevede la coesistenza di due rapporti – quello associativo e quello di lavoro, ben potendo il socio non essere lavoratore  e, al contempo, non potendo più essere lavoratore se perde la qualità di socio.

Ne deriva che la risoluzione del rapporto di lavoro non determina automaticamente il venir meno del rapporto associativo; al contrario, la cessazione del rapporto associativo fa perdere automaticamente altresì la qualità di lavoratore.

Corollario di quanto detto, sostengono i Giudici di Piazza Cavour, è che in assenza di impugnazione della delibera di esclusione dalla cooperativa, il lavoratore non potrà chiedere la ricostituzione del rapporto sociale (che è presupposto essenziale) e, quindi, dell’ulteriore rapporto di lavoro.

Il caso: una società datrice comunicava al proprio dipendente un provvedimento di trasferimento dalla sede lavorativa originaria (Pomezia) ad altra sede (Milano) per ragioni, tecniche, organizzative e produttive, coincidenti con una asserita soppressione del posto di lavoro ricoperto dal detto dipendente.

Il lavoratore rifiutava il trasferimento comunicatogli, manifestando, in ogni caso, la propria disponibilità e mettendo a disposizione le proprie energie lavorative presso la originaria sede di lavoro.

Ciononostante, si vedeva comminato il licenziamento con una doppia motivazione, ossia per giustificato motivo soggettivo stante l'inadempimento conseguente ad una assenza dal posto di lavoro, ma anche per giustificato motivo oggettivo conseguente ad una diversa organizzazione aziendale.

Il lavoratore, allora, proponeva ricorso avverso il licenziamento intimatogli a seguito del rifiuto di trasferirsi ad altra sede lavorativa.

Il Tribunale di Roma rigettava la domanda del dipendente ma, la Corte di Appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento, con tutte le conseguenze in ordine alla reintegrazione del dipendente e all'indennizzo previsto dall'art. 18 L. 300/1970.

Più precisamente il Giudice dell’appello concludeva per l’illegittimità del licenziamento in parola, avendo ritenuto privo di fondamento il giustificato motivo soggettivo, atteso che il lavoratore aveva "reagito" ad un comportamento illegittimo del datore di lavoro rappresentato dal trasferimento da Pomezia a Milano ed altresì il giustificato motivo oggettivo, stante il mancato riscontro della asserita soppressione del posto di lavoro.

Sul punto, è intervenuta la Suprema Corte di Cassazione – Sezione Lavoro che, con ordinanza n. 29054 del 5 Dicembre u.s., nel confermare la illegittimità del provvedimento espulsivo, ha affermato “il mutamento della sede lavorativa deve essere giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile un trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell'art. 2103 c.c. e, quindi una condotta datoriale illecita, che legittima la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, a condizione che sia, in ogni caso, accompagnata da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria”.

Nel caso di specie, pertanto, a fronte di un trasferimento illecito, poiché comunicato in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, e di un rifiuto opposto dal lavoratore pienamente giustificato e proporzionato, il licenziamento comminato allo stesso è stato valutato e dichiarato inesorabilmente illegittimo.

Il caso: una donna terza trasportata, a seguito di un incidente che aveva coinvolto la vettura su cui la stessa viaggiava, riportava una invalidità permanente del 25%. All’epoca dei fatti la vittima era disoccupata e, a causa delle invalidanti lesioni riportate, né poteva sostenere l’esame di stato per l’iscrizione all’Albo dei Geometri, né avrebbe più potuto intraprendere la detta carriera.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello aditi dalla donna liquidavano il danno subito a seguito del sinistro in una misura inferiore rispetto a quanto richiesto dalla vittima; non riconoscevano, infatti, il danno patrimoniale subito dalla terza trasportata, dal momento che la vittima non svolgeva alcuna attività lavorativa produttiva di reddito (disoccupata).

Sul punto, e in riforma della pronuncia di appello, si è recentemente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con ordinanza n. 26850 del 14 Novembre u.s., affermando che “In tema di danni alla persona, l'invalidità di gravità tale da impedire alla vittima di svolgere altresì lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, integra […] un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chances, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, il cui accertamento spetta al giudice in base a un ragionamento presuntivo e a una valutazione equitativa”.  

Pertanto, laddove appaia probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe conseguito in assenza dell'infortunio (ragionamento presuntivo-prognostico), la circostanza che la vittima fosse disoccupata non vale in alcun modo ad escludere il suo diritto al risarcimento del danno patrimoniale, anche a titolo di chances perdute. prova la regolarità della propria guida.

Il caso: una lavoratrice, nell'espletamento delle proprie mansioni di addetta al recapito della corrispondenza, trovandosi a bordo di un ciclomotore, scivolava sull'asfalto viscido per la pioggia riportando gravi fratture. L’INAIL non provvedeva alla liquidazione del danno biologico patito dalla lavoratrice in conseguenza del fatto che la società datrice non aveva assolto al proprio obbligo assicurativo pur in presenza di sentenza definitiva che accertava la natura subordinata del rapporto sin dall’epoca dell’infortunio.

La Corte d'Appello di Lecce, in riforma della decisione del Tribunale, accertava la responsabilità della società datrice per la mancata copertura assicurativa del rischio professionale ed il mancato approntamento di misure di prevenzione, e la condannava al risarcimento del danno patito dalla dipendente in conseguenza dell'infortunio.

Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 26261 del 6 Novembre u.s., ha confermato la pronuncia di appello: “  in ordine all'indennizzabilità del danno biologico derivato alla lavoratrice a seguito dell'infortunio occorsole, va riconosciuta alla lavoratrice medesima la somma che si sarebbe vista liquidare dall'INAIL in forza del disposto di cui alla I. n. 38/2000 ove la Società datrice non fosse risultata inadempiente all'obbligo assicurativo che le incombeva in ragione dell'intervenuto riconoscimento giudiziale della natura subordinata del rapporto all'epoca in essere tra le parti”.

Pertanto, il datore che non regolarizza la posizione del proprio dipendente, anche da un punto di vista assicurativo (impedendo quindi la normale copertura ad opera dell’INAIL), sarà tenuto a risarcire direttamente il danno patito dal lavoratore a seguito di un eventuale infortunio sul posto di lavoro.

Il caso: una paziente richiedeva la prestazione professionale di un medico, lamentando forti dolori addominali. Dagli esiti degli esami clinici prescritti dal medico incaricato, quest’ultimo diagnosticava un’ernia ietale, non disponendo, di contro, idonei accertamenti istologici che, qualora eseguiti tempestivamente, avrebbero rilevato con sensibile anticipo la natura tumorale della patologia da cui soffriva la paziente. Le cure apprestate, quindi non sortivano alcun effetto e la paziente moriva.

La Corte d’Appello di Bari assolveva il medico dall’accusa di omicidio colposo ex art. 589 c.p., ritendendo che la condotta dell’imputato non fosse stata causalmente idonea a determinare la morte della paziente, morte che, vista la natura del male che l’affliggeva, sarebbe comunque avvenuta.

Sul punto, è recentemente intervenuta la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 50975 dell’8 Novembre u.s., annullando con rinvio la pronuncia di appello ai soli effetti civili, vista l’avvenuta prescrizione del reato di omicidio colposo.

La sentenza in commento, uniformandosi ad altri precedenti giurisprudenziali conformi, ha ribadito come in tema di colpa professionale medica, l'errore diagnostico si configura anche quando si ometta di eseguire controlli ed accertamenti doverosi ai fini di una corretta formulazione della diagnosi.

Ne deriva che è responsabile il medico anche quando la sua omissione abbia contribuito alla progressione del male e l'errore costituito dalla diagnosi tumorale colposamente tardiva abbia determinato il decesso del paziente o l'abbreviazione della sua sopravvivenza.

Ed infatti, sulla base di un giudizio controfattuale, confortato dalle risultanze istruttorie, era emerso come una diagnosi corretta e tempestiva avrebbe potuto scongiurare un decorso infausto almeno in tempi così brevi, consentendo alla paziente di ricorrere a protocolli terapeutici (ad es. asportazione parziale dell’organo affetto da tumore) idonei a garantire la guarigione o, comunque, a incrementare consistentemente le sue speranze di vita.

In definitiva, l’essere affetti da un male terminale non fa venir meno la responsabilità del medico che abbia ritardato la diagnosi corretta, costituendo anche il solo prolungamento della vita, di settimane o anni, un elemento da prendere in considerazione a tal fine.

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